Sì questa newsletter esiste ancora, e stavolta parla di Sicilia (ma preparati, è triste)
Tornare a Milano dalla Sicilia ha ogni volta il sapore, asperrimo, delle occasioni sprecate. È una sensazione di mancanza incolmabile e, soprattutto, ineluttabile, perché dentro di me sono certa che la proverò sempre, ogni singola volta che scendo.
questa è la vista con cui sono cresciuta
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Mi hanno chiesto di parlare un po' delle cose che provo quando torno giù, ma non pensavo che lo avrei mai fatto in maniera, diciamo, approfondita. Non per riservatezza, ma perché io per prima non so bene che cos'è questo ammasso di emozioni, né ho ancora capito se abbiano davvero a che fare con il mio status di emigrante da un posto così complesso e affascinante come la Sicilia, oppure no.
In altre parole, non ho gli strumenti né la faccia tosta per trarne un racconto “universale” e mistico, una storia che parli del luogo da cui vengo più che di me o delle mie ansie, che benché non esistano in un vuoto potrebbero avere a che fare molto più con i miei traumi personali che con le strade che ho percorso fino ai 26 anni – momento in cui ho lasciato Messina e sono diventata a tutti gli effetti una siciliana emigrata.
Ora, al netto di questa premessa, non posso certo negare di essere in buona compagnia: tante persone che tornano giù, in Sicilia come in altre parti del Sud Italia, dicono di esperire un malessere che le assale all'uscita dell'autostrada, sulla scaletta che le fa scendere dall'aereo o alla stazione del treno. Ri-mettere piede giù non è mai un'azione neutra. O la vivi come un enorme sollievo, con l'aria di casa che finalmente ti fa tornare a respirare, oppure come una discesa agli inferi, la sensazione di essere sull'orlo del precipizio. Immagino che ci sia gente in grado di esperire reazioni più equilibrate, ma onestamente non frequento molte persone la cui salute mentale si può dire stabile, quindi non so.
Dicevo, se siamo in tantu a sentirci confusu e/o (in)felici – cit. Carmen Consoli – è chiaro che la questione sia anche politica. Nel mio caso, però, io non so in che modo, dove sta la congiunzione, l'anello che collega la mia storia personale a quella collettiva dellu altru sicilianu. Non riesco a vederlo, e non so se è perché il mio personale è talmente ingombrante da offuscare il politico o perché il politico ha così tanto influenzato il personale da farmi perdere i contorni di me stessa.
Ad ogni modo: brancolo nel buio.
C'è da dire che non sono mai stata una persona campanilista. Questo non perché la Sicilia non si meritasse il mio amore, ma perché non ho mai capito il concetto di “appartenenza culturale a un luogo/comunità”. Ci sono cose che mi fanno sentire terrona, certo, ma non riesco a viverle come parte fondante della mia identità. Mi sembra più un “incidente”, nel senso che sono nata a Messina e quindi le mie spiagge non erano coperte di lidi a perdita d'occhio (motivo per cui impreco ogni volta che passo dalla riviera romagnola), le mie autostrade avevano due corsie e non quattro, non ho mangiato cinese prima dei 20 anni, le isole Eolie erano il panorama dalla terrazza di mia nonna.
Poi sono cresciuta in un paese di meno di mille abitanti, e onestamente credo che questo mi abbia plasmata molto di più della collocazione geografica (e culturale) del paese stesso.
Perché crescere in un posto così piccolo prima di Internet, prima dei social, con un padre che non c'ha alcuna voglia di portarti in città per fare “cose” e che il massimo della vacanza che può e vuole offrirti è un viaggio di 8 ore in macchina per andare a Centocelle dalla tua nonna fuori di testa che tira posaceneri per sport... diciamo che sì, ti segna abbastanza. Soprattutto ti segna avere un range limitatissimo di potenziali amicizie. Quelle robe che funzionano solo per i maschi sfigatelli negli scenari à la Stranger Things, o per le ragazzine magre e posate che piacciono ai suddetti maschi. Per una bambina grassa e secchiona, invece, questo pool ristretto di conoscenze significa solo una cosa: dai 5 ai 15 anni di bullismo.
Quando torno a Messina non vivo alcuna carrambata. Non ho più contatti, se non estremamente superficiali, con nessuna delle persone che sono cresciute con me. Compagnu di classe? Sparitu. Ogni volta che scendo sto, di norma, solo con mia madre e mio padre.
Sul rapporto con i miei genitori potrei scrivere un'enciclopedia in dieci volumi, ma non ho voglia neanche di buttare giù un paragrafo. Diciamo solo che, materialmente parlando, quando scendo non posso più stare nella casa in cui sono cresciuta, perché la mia stanza è diventata il set di una puntata di “accumulatori seriali” su RealTime.
Non so se sia davvero così, ma ho iniziato a pensare che non avere accesso alla mia vecchia casa (seppur bruttina e con i suoi spazi minuscoli, la finestra sempre rotta dopo che ci hanno svaligiato) e il dover stare nel nuovo appartamento di mia madre, in un quartiere della città che odio e che non sento mio, mi renda ancora più penosa la permanenza siciliana.
Questa volta, ad esempio, ho iniziato a provare un fortissimo disagio sul piano sensoriale. Gli odori di quella casa – che non era assolutamente puzzolente, parlo proprio dell'odore caratteristico di quell'appartamento –, uniti al forte caldo, erano per me insostenibili dal punto di vista sensoriale. La prima notte ho avuto una crisi di ansia, pensavo che non sarei riuscita a dormire e vivere in quegli spazi neanche per qualche ora. Inizialmente volevo scappare, poi sono diventata apatica.
Ho passato circa due settimane a Messina, e quasi tutto il tempo sono stata al cellulare a dissociarmi. Alcuni momenti mi riportavano un po' di afflato vitale, come un'uscita in riva allo Stretto verso il tramonto, con un leggero freschino, oppure tre giorni a Siracusa che mi hanno commossa, perché mi sono sentita di nuovo io, quella curiosa, sempre attiva, con la voglia di vedere posti nuovi e fare esperienze emozionanti.
Prima di scendere mi ero detta che avrei scritto, lavorato, progettato cose per tenermi attiva ed evitare il rischio di amebizzazione. Ovviamente ho letto pochissimo, scritto ancora meno, studiato (tedesco) zero. Avrei anche voluto portare il mio ragazzo e il mio cagnolino in giro per i posti più belli che conosco, fargli girare la città e le zone limitrofe, organizzare gite fuori, fare il bagno. Non ho avuto la forza di programmare nulla, mi sono solo accodata ai programmi altrui (roba impensabile per il mio ascendente in Sagittario).
Ed ecco che, puntualissimo all'ultimo giorno di permanenza, quando prepari la valigia e la carichi in macchina, mi assale quella sensazione ineluttabile, perniciosa: “un'altra occasione sprecata”. L'occasione di sentirti a casa, di vivere la tua terronaggine – che c'è, lo so, è lì, è te – , di immergerti nella bellezza straordinaria di quest'isola, trasmetterla alle persone che sono con te.
Fa male forse più dell'ansia, dei meltdown, dell'apatia.
Dura poco ma è dilaniante.
Ogni volta che scendo non sono io, e non sento nemmeno la me che sono stata. È come se fosse il fantasma di una vita vissuta da qualcun altro. Ricordo cosa è successo, con chi sono stata, i posti che ho visto, ma non li sento. E questo mi strazia.
A Siracusa, per un attimo, passando accanto a delle bancarelle, ho sentito fluire un ricordo: la fiera di Spadafora, istituzione per tuttu lu messinesu, specie delle zone tirreniche, che si tiene a luglio in occasione della festa del Patrono di questa cittadina di mare. Mi sono rivista passare tra gli stand, agli “mmesti-mmesti” (autoscontri), davanti al paninaro a chiedere un panino con le sole patatine fritte perché mi piaceva così e la salsiccia non l'ho mai mangiata.
È stato incredibile.
All'uscita del teatro greco, invece, alla fine della rappresentazione di Ifigenia in Tauride a cui ho assistito, ho provato un senso di gratitudine per la bellezza di quanto avevo appena visto. Ho sentito di trovarmi in un posto straordinario, della cui storia, in qualche modo, facevo parte anche io, che nonostante tutto sono siciliana.
È stato ancora più incredibile.
Ma è durato un attimo, e forse ha reso ancora più doloroso andare via sapendo che avrei potuto sentirmi così ma che non ci riuscivo per più di qualche secondo, e solo mentre facevo la turista in una città che non era la mia.
Mi piacerebbe dare la colpa di quello che provo a qualcuno o qualcosa, almeno avrei un bersaglio verso cui incanalare tutto questo tumulto interiore e trasformarlo in sana rabbia e ribellione. Ma dove la trovo la forza di lottare per qualcosa che non so neanche se amo? Lottare in che modo, poi? Cosa serve alla Sicilia, davvero? Di certo non una figlia disgraziata, confusa, che non sa neanche da cosa è scappata.
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Qualche tempo fa mi hanno detto che “sono una milanese che disprezza da dove viene”, ma, questo sì che lo so, è una cazzata. Entrambe le parti di questa frase sono sbagliate.
Io non “sono una milanese”: con Milano non ho alcun legame di spirito, è solo un posto in cui persone dalle tante identità “locali” diverse convivono senza particolari aspettative e in cui, proprio per questo, mi sono subito trovata bene. La famosa “fretta” milanese, la voglia di “riuscire”, la fighettaggine sono il volto più in vista della città, e poi ci sono un sacco di persone che semplicemente fanno la loro vita, non si integrano in nessun giro ma non si sentono nemmeno sbagliate per questo. A Milano sono me e basta, senza patria, senza che mi venga richiesto di conformarmi religiosamente alla sua hustle culture o, all'altro polo, infondere chissà che afflato di sicilianità in un tessuto sociale multiculturale (non ho food experience da proporre, ecco).
Io non “disprezzo da dove vengo”: io, semplicemente, non so da dove vengo, non lo so più. L'unica cosa che disprezzo è il caldo, l'appiccicaticcio dell'estate prolungata e l'impossibilità di mettere un cappotto a novembre senza sembrare Totò a Milano. Ma per provare questo rifiuto verso la Sicilia io prima dovrei capirla, sentirla. Dovrei provare un qualche attaccamento verso questo posto “da cui vengo”, eppure a me continua a sembrare un semplice dato sulla carta d'identità. Come puoi disprezzare un dato?
Sembra che esistano solo due possibili narrazioni: l'emigratu col mal di Sicilia, che va via a malincuore e si sente vivere solo quando è sull'isola, e quellu che pensa di aver fatto il salto di qualità e guarda dall'alto in basso chi è rimasto. In questo binarismo non c'è spazio per una come me, che non sa cosa pensare e soprattutto cosa sentire, né, di conseguenza, raccontare. Non potrò mai soddisfare il desiderio di chi vuole capire “come ci si sente” ad andare via da un posto splendido e maledetto - che in fondo, forse, è un'altra narrazione irrimediabilmente feticizzante.
Il bagaglio che si porta dietro chi nasce qui è così ingombrante: devi amare la Sicilia, DEVI. Altrimenti sei schiavu di una narrazione settentrionalista. Non puoi, non DEVI rifiutare le tue origini, non vorrai mica darla vinta allo sguardo coloniale dei milanesi? Allo stesso tempo DEVI anche soffrire tantissimo per tutto quello che non va lì. Se non te ne vai un po' sei scemu, diciamola tutta, no? Cu nesci arrinesci, e d'altronde per parlare male dei milanesi serve fare la loro vita.
Quello che senti tu, proprio tu nel tuo profondo, non è rilevante. Forse non esiste proprio. La “cultura” viene sempre prima, e a i termini di qualcun altro.
Magari essere siciliana per me significa semplicemente farmene una ragione.