Si comincia? Si comincia! (o di social, gif di The Good Place e pinkwashing)
Ciao!
Questa è la prima newsletter di Tapioca.
La tentazione, adesso, è ovviamente di chiudere il PC all'istante e scappare in Messico, ma cercherò di mandare almeno un'e-mail prima di darmi alla macchia.
Ora, non so quale sia l'etichetta della gestione newsletter, ma io penso che abbia senso partire innanzitutto dal perché sono qui a scrivere queste righe invece di sproloquiare su Instagram.
Un po' ve ne ho già parlato, ma stavolta vorrei provare ad andare un pochino più a fondo.
Partirei da qui, cioè da questa persona: Adam Mosseri, head di Instagram
Nei giorni scorsi, anche con un certo candore, Mosseri ha detto al mondo che Instagram non sarà più un'app di foto, ma si concentrerà sui video e sull'intrattenimento, perché - parole sue - TikTok, YouTube e altre piattaforme rappresentano una concorrenza ormai spietata.
Un'altra cosa che ha detto Mosseri è che cercheranno di "aiutare" i creator - cioè la gente come noi che sta su Instagram - a "vivere" dei propri contenuti. A monetizzarli, insomma.
Quello a cui si riferisce è un fondo per creator, cioè una cosa che TikTok ha già messo in piedi in Europa e Stati Uniti, e in pratica consiste nel pagare un tot per visualizzazione a chi produce video e ha una base follower superiore a 10k. Si stima che Khaby Lame, che è la seconda persona più seguita al mondo su TikTok, possa fare dai 300 ai 500 euro a video - insomma, non aspettatevi cifre enormi, è un po' come con la pubblicità di YouTube: guadagni se sei molto popolare, e comunque i soldi veri non vengono da lì ma dalle #adv.
La notizia ci interessa non tanto per la cosa in sé ma per il fatto che il re è nudo: Facebook ammette senza neanche girarci troppo intorno che bisogna copiare TikTok (niente che non abbia già fatto in passato, con Snapchat ad esempio, ma prima almeno la faceva più sporca) e andare sempre più verso "l'intrattenimento", perché le ricerche dicono che è quello che la gente vuole. E stacce.
Ecco, quello che io non riesco più a tollerare è proprio che devo stacce, sempre, comunque, a qualsiasi condizione Mosseri, Zuckerberg o chi per loro decidano perché il mercato lo deve dominare Facebook e nessun altro. E non riesco neanche più a tollerale che se voglio parlare di quanto questo circo mi faccia schifo, la prima cosa, la più logica e contemporaneamente controintuitiva, è di farlo proprio sulle loro piattaforme.
Sì, solo Gif di The Good Place in questa newsletter, per oggi.
Comunque, dicevo, so che non vi sto raccontando niente di nuovo, ma più passa il tempo e più mi sembra inaccettabile che la costruzione di una comunità digitale debba necessariamente passare da strumenti che non sono palesemente costruiti né manutenuti a questo scopo e che, da un giorno all'altro, possono decidere che la tua piccola bolla non ha alcun valore commerciale per loro e spingerti quindi ad allontanarti o cedere.
Pensateci: cos'è lo shadowban (o, se non vi piace il termine, il fatto che certe persone e certi argomenti vengano puniti e invisibilizzati dall'algoritmo) se non una forma di mobbing social? Non sei persona gradita, quindi ti isolo. Non posso mandarti via apertamente, almeno finché un sacco di gente non si coalizza per buttarti fuori (che siano fascisti a me non frega niente, è più facile che il Moige tolleri loro che le tue tette), e quindi tiè, in un angolo a piangere con 4 views e problemi di caricamento.
"Ma dobbiamo restare su Instagram per non lasciare questa piazza all'oppressore!", dici, e io ti rispondo che se la gente vede ancora le tue storie, se non ti hanno cancellato l'account e magari ci fai anche qualche soldino, vuol dire che la parte marginalizzata non sei tu. Se toccano una toccano tutte, si diceva, e allora quante altre sex worker bannate e oscurate, quante altru giovanu palestinesu silenziatu, e quanti altri contenuti divulgativi buttati nel cesso in favore del nuovo formato video entertaining ci servono per farci, non dico tanto, un paio di domande in più?
Poi, oh, non sarò certo io a dirvi di non usare Instagram. Non è questo il punto della presente filippica. Restiamoci pure su Instagram, ma con la consapevolezza che quello che abbiamo costruito lì sopra a colpi di infografiche di Canva non ha alcun valore per Facebook e domani non ci sarà più spazio per questo modo di comunicare, su cui tante persone hanno costruito la propria presenza online e modificato abitudini, pensieri, pratiche.
Certo, possiamo decidere che alla fine le cose cambiano in continuazione da sempre e come si fa divulgazione con una grafichetta la si continuerà a fare con stitch e duetti - e sono anche d'accordo con questa visione, in linea di principio.
Ma il grande rimosso di tutta la nostra esperienza social è che questa roba non è un'evoluzione organica che lascia spazio alle possibilità e i desideri di ciascuno, ma un cambiamento imposto dall'alto per scopi commerciali, questa volta nello specifico dalla falciatrice di Zuckerberg.
Non è un dettaglio trascurabile, ma il nucleo della questione.
E non lo dico perché il capitale è il male. Cioè, intendiamoci, il capitale È il male, ma non ne faccio una questione etica, della serie "il nostro attivismo non può macchiarsi dei crimini della Silicon Valley colludendo con il nemico".
Il fatto, piuttosto, è che:
Le modalità in cui comunichiamo su Instagram sono influenzate da, o per meglio dire indissolubilmente legate a, la sua natura di prodotto commerciale di un'azienda multinazionale sempre più monopolista. E questo non si può aggirare, non fino in fondo.
Non è solo che Facebook può scegliere arbitrariamente cosa rimuovere, cosa pompare e cosa oscurare, ma anche che applichiamo logiche comunicative social a cose che non necessariamente vi si adattano. Le riflessioni personali diventano calendario editoriale, il "confronto con la comunità" si individualizza e invece di momenti di crescita collettiva abbiamo dei callout che girano intorno alla necessità di mostrarsi e agire sulla propria reputazione.
Attenzione, non sono qui per dirvi che invece di fare delle stories contro una persona dovreste sempre scriverle in dm per chiarirvi. Non tutto deve essere strategia, non tutto deve essere lungimiranza e non tutto deve essere "polite". You do you e ogni caso è diverso.
Quello che mi sembra, però, è che si sia creata una sorta di social netiquette fatta di automatismi, importati pari pari da ambienti che non sempre sono compatibili al 100% con quelli in cui ci muoviamo noi, e che questo produca un circolo vizioso di contenuti sempre uguali, dove non si costruisce un archivio di saperi ma ogni nuovo "creator" aggiunge già detto al già detto e cura semplicemente il suo brand.
Formule come "passare il microfono" sono state inglobate in calendari editoriali costruiti per essere sempre sul pezzo, le notizie del giorno sono fonti fresche di indignazione un tanto al kg che magari porta l'attivista del momento a fare una comparsata in tv o un evento dal vivo ma poi tutto si conclude in un post di pinkwashing senza che il lavoro di chi, con i suoi piccoli mattoncini fatti di confronti, insegnamenti e testimonianza ha contribuito a costruire il "content" finalmente monetizzabile, venga riconosciuto e portato avanti.
E a proposito di pinkwashing, lasciatemi dire giusto un paio di cose prima di congedarmi. Nelle sue storie, qualche tempo fa, Viola Carofalo rispondeva a chi obiettava alle sue critiche rivolte a una influencer femminista con "anche Marx si faceva sponsorizzare dai borghesi" che c'è' una differenza notevole tra ottenere sostegno economico per diffondere la PROPRIA agenda (in questo caso: il messaggio femminista) e piegarla agli interessi DI CHI FINANZIA.
Il problema di questi contenuti, come continua a spiegare Carofalo (le sue storie sono in evidenza sul suo profilo Instagram sotto il nome "pinkwashing"), non è legato a una questione morale, ma ancora una volta di natura pratica. Certamente c'è chi ne fa un discorso di purezza etica, ma a me personalmente non interessa. Anzi, trovo che sia perfino auspicabile farsi pagare dai padroni per vivere di femminismo, se mai qualcunu riuscirà nell'impresa.
Personalmente posso essere solo che contenta se sempre più persone marginalizzate, donne comprese, riescono a guadagnarsi da vivere senza doversi spaccare la schiena con un lavoro di merda 10 ore al giorno e trovano nei social, le adv e chi più ne ha più ne metta una fonte di sostentamento. Il fatto è che, e qui torniamo al punto iniziale, il sistema non è costruito a questo scopo e pare non interessare davvero a nessunu finché ci sarà chi ne trarrà comunque vantaggio. I meccanismi che portano all'influencer culture sono regolati dalle stesse disuguaglianze del mondo offline, e quei casi in cui una persona non privilegiata riesce a emergere non sono indicativi di un trend migliorativo esattamente come una girlboss non fa primavera giustizia sociale. La content creator di turno che grida al classismo ogni volta che si critica una sua collaborazione si sta appropriando di una questione molto più complessa che non la riguarda, e a me sembra molto disonesto.
Ecco, un altro dei motivi per cui sono qui a scrivere queste cose e non (più) su Instagram è che non è possibile introdurre questo argomento senza essere trascinatu in un turbinio di messaggini, storie, meme e frecciatine che, francamente, metterebbero alla prova pure la salute mentale del Dalai Lama. Proprio perché i social sono fatti di "contenuti" e non di "opinioni", ogni discussione è l'occasione per rafforzare il proprio brand. Choose your fighter: meme edgy da "io so io e voi non siete un cazzo", l'infografica della femminista intersezionale™, "l'analisi della complessità". Ogni dibattito viene inserito a forza in un piano editoriale, tanto che appena te ne accorgi tutto ti sembra ridicolo, con i post di "attivismo" che matchano l'estetica del profilo e la velocità con cui si preparano dirette e reel sul tema del giorno. Guardi il tuo profilo come il protagonista di Uno, Nessuno e Centomila guardava il suo naso allo specchio e in un attimo ti trasformi in Bo Burnham durante le riprese di Inside. No good.
A me piacerebbe invece un confronto sincero e stimolante su quanto le piattaforme vivano del pluslavoro (sorry Karl, spero che non ti rivolterai nella tomba per questo uso non ortodosso della tua teoria) che noi utenti generiamo attraverso i nostri famigerati contenuti, ben oltre le briciole dei fondi per creator che si basano sempre sulla performance - e secondo i loro criteri. Su come, nel qui e ora, un utente Instagram che discute di giustizia sociale possa finanziare il proprio lavoro emotivo e creativo, senza facili moralismi ma neanche disonestà intellettuale (io qualche idea di compromesso ce l'ho, magari ne riparliamo). Su come certe dinamiche stiano logorando la nostra salute mentale, e le pause detox di una settimana non servano a molto se non impariamo a comunicare in maniera diversa - e idealmente in luoghi diversi.
Aaaaaanyway, sto scrivendo da circa 2 ore e mezza e 1800 parole per cui credo sia giunto il momento di mettere un punto, letteralmente.
Spero che alla fine di questa lettura l'immagine che vi resterà di me non sia quella di un vecchio che grida alle nuvole, anche perché devo talmente tanto a Instagram che il neoluddismo non è proprio la mia strada. Allo stesso tempo, però, mi rifiuto di dover sempre precisare quanto siano utili i social, quanto ci aiutino ad amplificare le nostri voci e conoscere altre persone, prima di avanzare dubbi e critiche. È il ricatto dell'approccio democristiano alla vita, più che un sincero esercizio di complessità. Con questo atteggiamento, signorina, non andremo da nessuna parte e di certo non rovesceremo il capitalismo - che, lo sappiamo, ha fatto anche cose buone e ha bonificato l'agro pontino.
Quindi vi saluto così, col disincanto di una che comunque correrà subito a segnalare nelle storie l'invio di questa newsletter (si sa, bisogna sempre tenere alto l'engagement)
Grazie per aver letto e per aver deciso di iscrivervi a Tapioca
Francesca :)