L'impostora alla fine del mondo
Qualche giorno fa ho iniziato a leggere Il fungo alla fine del mondo, di Anna Lowenhaupt Tsing. È un libro che parla di cose che non si incastrano nel puzzle della vita capitalista partendo dagli ambienti in cui cresce e viene raccolto il fungo matsutake, una specie che spunta spontanea in luoghi disastrati e non può essere coltivata.
Non sono una grande lettrice ed è rarissimo che io inizi a leggere immediatamente un libro appena comprato o ricevuto in regalo, anche perché ne ho in lettura già un sacco e una lista che non finisce mai. Eppure stavolta ho dovuto iniziare subito, e non ho altra spiegazione se non che... era destino?
Il fatto è che questo libro - che, tra parentesi, vi invito a leggere - sta facendo da specchio a uno strano percorso personale, fatto tanto di ansia quanto di guarigione, di rassegnazione quanto speranza.
eccolo, il fungo matsutake, non è carino?
In uno dei primi capitoli, Tsing parla di scalabilità e di come la vita moderna sembri dipendere in tutto e per tutto dalla capacità delle cose di espandersi di scala, di crescere seguendo un dato modello di efficienza e quindi applicabile a tutto il resto, allo stesso modo. Ai margini di queste operazioni di scalabilità, però, ci sono cose, vite, che non sono progettate per l'espansione e che in parte si sviluppano proprio sulle sue rovine, come il matsutake.
Ecco, scorrendo quella parte mi sono dovuta fermare e prendere un appunto (cosa che faccio molto raramente durante la lettura di un libro); ho scritto "io non sono scalabile".
Non lo intendevo come un "io sono unica", ma proprio come l'ammissione, liberatoria e spaventosa, di non funzionare in un mondo fatto di modelli come quelli. Un mondo in cui mi sono sempre sentita fuori ma di cui sapevo di essere contemporaneamente una sorta di prodotto, forse anche un'interprete? Un parassita, magari, come un fungo.
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Della famigerata sindrome dell'impostore ormai si parla continuamente e molte persone che leggo online stanno iniziando a sottolineare come la sensazione di non essere abbastanza competente, tipica soprattutto delle donne e/o delle persone marginalizzate, non andrebbe associata a un qualche disturbo e patologizzata in senso individuale, ma ricondotta agli effetti di una società patriarcale che isola e svaluta la differenza.
Tutto giusto, ma a me questa suona comunque come un'ulteriore aspettativa normativizzante da soddisfare: non sei tu, sono loro, quindi carry yourself with the confidence of a mediocre white man oppure protesta perché il mondo continua a chiederti di paragonarti al Gianpatrizio di turno.
Ma cosa succederebbe se per una volta fossi IO, non loro? Se fossi davvero un'impostora?
Ne avrei il permesso?
Per anni mi è stato detto di no, più o meno esplicitamente, dalla mia testa e dal mondo circostante. Era un'eventualità inconcepibile, specie per una bambina, ragazza e donna all'apparenza dotata e brillante, quella di non essere davvero all'altezza. Eppure più ci penso e più sento che impostora, per me, non è una sindrome da sconfiggere o rifiutare, quanto un'identità con cui fare i conti.
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Per anni sono riuscita a truffare tuttu, perfino me stessa, convincendo chi mi stava intorno e mi sentiva parlare di essere una brava studentessa, competente e diligente. In realtà non lo sono mai stata: ho sempre studiato pochissimo rispetto alle mie compagne secchione che prendevano ottimi voti come me; non mi sono mai chiusa in casa per giorni a prepararmi per un esame universitario; mi distraggo con un facilità disarmante e salto interi pezzi di ciò che sto leggendo, ci torno su trenta volte e poi rinuncio.
Sono assolutamente incapace di essere esperta di qualunque cosa perché non mi impegno a fondo, in niente.
Quello che sembra frutto di chissà quante letture e ore di studio - non lo dico per vantarmi, giuro - è per lo più il risultato di piccole epifanie e rimuginazioni personali. Non ho alcuna competenza.
Non riesco neanche a fare troppa fatica intellettuale - il mio cervello inizia a vagare al secondo passaggio di un qualsiasi processo deduttivo/matematico e non ho alcuna intenzione di farlo focalizzare, al massimo prima mi disperavo di non riuscire e mi veniva l'ansia mentre adesso direttamente mollo il colpo. Il solo pensiero di fare ricerca per diventare più compente su un qualsivoglia argomento mi terrorizza e mi stanca.
Tutte le cose in cui sono un po' brava, come la traduzione ad esempio, sono cose in cui non mi sono mai impegnata per diventarlo e che nascono da una qualche attitudine, mai dal duro lavoro. Parlo bene l'inglese semplicemente perché vi sono esposta tutti i giorni, e infatti col tedesco sono una pippa perché per impararlo meglio dovrei essere seriamente intenzionata a curarlo. La pratica rende perfettu: beh, io non pratico, niente.
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Un'altra cosa che è una costante della mia vita e del mio "modello (dis?)funzionale" è l'incapacità totale di programmare. Con questo non intendo che vivo alla giornata, ma che non riesco a gestire la progettualità in termini di percorsi di vita, esperienze, competenze perché non ho mai trovato una direzione, o più di una - il che, di riflesso, mi rende impossibile impegnarmi.
Mi spiego: non sono semplicemente una multipotenziale che non ha una vocazione unica. Semplicemente ogni mio interesse resta superficiale rispetto agli standard di chi ha hobby e passioni, ogni progetto è caotico, e ogni tentativo di sistematizzare vita o carriera destinato a fallire perché evidentemente... io non sono un sistema né mai lo sarò.
Ai sistemi guardo da fuori, affascinata. Mi danno linfa vitale, e come un parassita mi ci aggrappo. È quello che faccio quando scrivo una story su qualche struttura di potere brutta e cattiva, che mi sembra di riuscire a sintetizzare (nel senso chimico del termine) come un fungo che trae sostentamento dagli organismi intorno a sé, o quando traduco, nutrendomi del succo di due sistemi linguistici diversi.
Ma il mondo, per come l'ho sempre visto io, non dovrebbe essere fatto per queste forme vitali parassitiche, ché sono troppo precarie, instabili, dipendenti. Il mondo, per me, è sempre stato dei sistemi - comprensibili, riproducibili, scalabili - e di chi li sa maneggiare, con impegno e dedizione.
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Per imparare una cosa la studi, per capirla al meglio la studi ancora di più, diventi espertu e la gente ti chiede di parlarne.
E io ho sempre voluto parlare, questo sì; ho sempre voluto che la gente mi chiedesse di farlo e che avesse senso perché ero competente. Ma io competente non lo sono in niente, ho solo intuizioni, pensieri, teorie, mica competenze. E allora a cosa servo? In un universo produttivo scalabile, dov'è lo spazio per la mia incertezza strutturale? E se non lo trovo, ho il diritto di farmi sentire, "produrre", vivere?
Ho passato almeno 20 anni sospesa tra l'urgenza di parlare e la convinzione di non avere nulla da dire e/o il diritto di farlo, e forse il problema, alla fine, stava in questa dicotomia. Nel dare per scontato che non fossi davvero un'impostora in un sistema che non è fatto per me, ma solo in difficoltà nel sedermi al mio posto.
Ai parassiti, però, nessunu assegna un posto, non sono alberi, non hanno radici.
Che belli 🍄
Instagram, per esempio, è un sistema in cui io, appunto, un posto non ce l'ho. Per il tipo di parassita che sono non posso produrre un calendario editoriale, a meno che il calendario editoriale stesso non diventi il contenuto e il protagonista del mio profilo.
Vivo fuori dal sistema: non produco conoscenza, al massimo commenti alla conoscenza. Non posso, quindi, darmi una progettualità, perché ciò implicherebbe ri-entrare nel sistema, diventare parte produttiva di contenuti e non solo sintentizzatrice, parassita, fungo. E io non lo so fare.
Non è che non voglio, come per anni ho finto di pensare, usando un certo senso di superiorità come meccanismo di coping (quando dentro comunque morivo di vergogna). Non posso. Non ci riesco.
Il disagio che provo non è sindrome, è funzionamento, identità.
E allora, mi chiedo, ha senso continuare a fargli la guerra?
Non ho un posto tra gli alberi, ok. Ma magari posso essere un fungo in santa pace? Posso iniziare a guardare la mia esistenza parassitaria e funghesca come intrinsecamente dignitosa e funzionale tanto quanto quella di una quercia o un cipresso, soltanto secondo un altro paradigma?
In fondo il mondo come lo conosciamo sta finendo e, come spiega Tsing, è in questi momenti di grande precarietà che si creano improbabili "assemblaggi". L'errore è provare a farli entrare a forza in strutture scalabili sempre uguali, nonostante alle volte non ci sia (più) niente da scalare.
Ora, non so bene dove questa conclusione mi porterà, e se "impostora", o "fungo" sia solo un'intellettualizzazione di "neurodivergente", ma questo è dove sono adesso. Il tronco a cui mi sono attaccata.
Vedremo quanto, e se, crescerò alla sua ombra.