Immagini stock e identità queer, immagini queer e identità stock
Ciao :)
Mi fa strano iniziare un "pezzo" fuori da Instagram parlando di quello che succede su Instagram, come se il social di Zuckerberg fosse il punto di riferimento universale, centro della mia - della vostra - vita culturale e sociale online. Eppure non posso negare che, per me, Instagram sia stata la prima vera piazza in cui confrontarmi sui temi che sto per affrontare, lo spazio in cui succedono cose di cui poi si parla, e su cui io faccio la gran parte delle mie riflessioni.
Spirito del tempo? Non so, forse è più spirito del MIO tempo, del modo in cui mi approccio al discorso pubblico sui temi che mi interessano mentre fuori, per fortuna, c'è un mondo ben più ampio. Cerco di dirmelo, ridirmelo e puntualizzarlo anche per voi perché troppo spesso pensiamo che Instagram (ma potremmo estendere questo discorso, in bolle diverse, ad altri social) sia una specie di termometro sociale, quando spesso non è nemmeno termometro social. Tuttavia, e concludo per arrivare al punto, rimane uno spazio in cui tante persone hanno trovato discorsi arricchenti e piccole comunità (da non confondersi con community), e questo dà forma a come stiamo al mondo sia online che offline, inutile negarlo o anche solo ridimensionarlo.
immagine cringe per passare dalla premessa al testo vero e proprio
Quindi, veniamo a noi.
Da quando sono out come asessuale e bi/panromantica mi capita molto spesso di imbattermi nelle schermaglie tra le varie bolle queer dell'Instagram italiano, o almeno le bolle queer a cui sono esposta io. Tornando un attimo alla premessa, quello che vedo io non è necessariamente indicativo di come si fanno e dicono le cose in altri ambienti, digitali e non. Quindi non intendo generalizzare a contesti che non conosco granché, come quelli della militanza offline. Spesso questo tipo di riflessioni viene esteso a tutto il mondo dell'attivismo (anche quando a parlare sono persone che io non definirei attiviste) o addirittura si pensa che il proprio angolo social sia rappresentativo di tutto il mondo dell'attivismo. Non è quello che intendo fare io, quindi considerate ciò che segue come riferito al solo contesto del discorso Instagram (meme, stories, post, reel?) sulla queerness.
vediamo se riesco a iniziare davvero?
Dicevo; sono spesso esposta a varie schermaglie tra gruppi di persone queer su Instagram. A dire il vero, le dinamiche che vedo sono molto simili anche in altri ambiti del discorso sulla giustizia sociale, ma partiamo da qui e poi magari arriviamo al resto, anche perché penso sia interessante portare degli esempi in questo senso.
Ora, senza fare riferimento a episodi specifici, ché poi viene fuori un papiro infinito, ho potuto osservare due tendenze (ditemi voi se vi torna):
1) una visione rigidamente "strutturalista" dello strumento teorico dell'intersezionalità (ora spiego cosa intendo, scusate i paroloni supercazzolosi) anche quando le cose sono più complicate
2) la contemporanea - ironica? - incapacità di applicare uno sguardo d'insieme reale, riducendo il tutto a concetti (tipo "privilegio", "tone policing", gaslighting") usati in maniera univoca e strumentale a difesa del proprio orticello, creando spesso delle strane contraddizioni.
oggi solo immagini stock cringine
Provo a spiegare cosa intendo con "visione rigidamente strutturalista" partendo dalla mia esperienza personale. Mi è capitato spesso, di fronte alle suddette schermaglie (sia che mi vedessero coinvolta o solo spettatrice) di cercare una sintesi delle varie istanze e reazioni che potesse andare bene in senso generale. Cioè: di fronte a gente che si prendeva a male parole io cercavo di trovare un modo univoco di affrontare la questione che andasse bene per ogni caso. Avevo dei principi e dei concetti, in teoria bastava applicarli sempre uguali.
Considero questa cosa un approccio un po' strutturalista nella misura in cui cerca di guardare all'aspetto sistemico - bene - ma con una certa ottusità meccanica: invece di andare dal particolare all'universale, fa il contrario, pretendendo di poter applicare dei concetti molto generici a questioni che sono ben più particolareggiate nella loro realtà quotidiana, dove stabilire chi ha il potere è più complesso e non sempre questo potere è "fisso", dove il concetto di privilegio e quello di identità non sono per forza chiaramente individuabili, e dove non c'è una formula magica per stabilire cosa sia gaslighting, o tone policing, o chissà che altra buzzword (perché così vengono usate, non perché lo siano necessariamente) in base a un posizionamento univoco nella grande gerarchia dell'oppressione.
Io cercavo, insomma, un vademecum che mi dicesse come avere sempre ragione - non io Francesca, ma io persona random: in che modo posso non sbagliare? E non in termini di avanzamento personale eh, proprio per non risultare oppressivu, per non rischiare di farsi confondere dal proprio posizionamento e dalle reazioni emotive.
Faccio un esempio: l'anno scorso ho fatto delle storie sui due tizi che cantano Musica Leggerissima, scrivendo che la loro performance tendenzialmente mi disgustava perché mi mandava "vibe" molto da "creep", quindi da tipi abbastanza viscidi, quelli che poi ti mettono la pillolina nel drink. Io non conosco i due cantanti, mi riferivo alla loro estetica e performance, e non sapevo quanto quella vibe fosse voluta o meno, però a me risultava fortissima. In una story misi la loro faccia (un errore perché in quella foto non erano vestiti di scena) scrivendo proprio quella cosa della pillolina nel drink. Ricevetti diverse critiche su questa cosa. Una sosteneva, in maniera molto aggressiva, che avessi fatto loro call out come stupratori, un'altra che mi avrebbero potuto querelare per diffamazione e che stavo facendo l'equivalente degli uomini che chiamano le donne zoccole sulla base del loro aspetto. Mi sono difesa pubblicamente chiarendo il mio punto, ma nel privato ho passato tre giorni a sviscerare queste accuse per capire se, sulla base di una visione appunto strutturalista delle cose e soppesando tutti i vari ruoli di potere in gioco, avessi seguito le regole e mi fossi comportata bene. Una risposta possibile era che l'uomo, in quanto oppressore delle donne, potesse essere sbeffeggiato senza che ciò avesse lo stesso valore dello "scherzo" sulle donne da parte maschile. Vero, ma comunque non mi convinceva fino in fondo.
Il fatto è che io pensavo di essermi presa gioco di un'estetica che non sempre risulta immediatamente creepy e patriarcale - per esempio quella di Tommaso Paradiso, per me una roba da bagaglino più indie e ripulita- , e invece evidentemente non ero stata brillante, avevo usato dei codici che non mi appartengono e che non so maneggiare. Forse il punto stava più in questo. Potevo cercare delle giustificazioni "sistemiche" per assolvermi, ma la verità era che in quelle interazioni ognunu di noi aveva una posizione molto specifica: una delle persone che mi ha criticato aspramente aspettava soltanto il momento giusto per cogliermi in fallo, alcune di quelle che non l'hanno fatto erano passate sopra alle storie perché mi stimano, io avevo usato una considerazione da bar e una mia sensazione per fare, male, un discorso in chiave edgy, che chiaramente non so fare.
Non serviva a niente cercare di trovare un "ordine strutturalista" a questo episodio, non c'erano grandi lezioni da trarre e dovevo convivere col mio disagio, stop.
un'immagine stock del disagio
Ho riscontrato che spesso, quando ci sono scontri tra persone che parlano di giustizia sociale, ogni parte tira acqua al suo mulino usando vari principi della teoria - magari importati da contesti statunitensi attraverso infografiche su Instagram? - facendo contemporaneamente un'operazione di personalizzazione e universalizzazione.
In pratica succede questo: ci si posiziona nel dibattito in base alla propria categoria di appartenenza, provando quindi a dare respiro sistemico alla questione, ma contemporaneamente si usano questi concetti unicamente in senso strumentale, ovvero per legittimare le proprie parole e, nei casi peggiori, distorcere il dibattito. A quel punto la questione diventa unicamente una guerra delle identità, in cui un pokemon usa " accusa di tone policing" contro il nemico per evitare di riflettere sulle proprie modalità comunicative, e l'altro pokemon ci tiene a ricordare che è più in alto nella gerarchia delle persone oppresse, scatenando quindi l'ennesimo sotto-dibattito su visibilità come privilegio vs "actual queers".
In tutto questo, ciò che a me sembra mancare è un vero confronto, e questo, in parte, per via proprio di una certa rigidità, nonché della sua strumentalizzazione. Io trovo questa cosa particolarmente insensata specie quando si parla di identità queer, un ambito che necessiterebbe di un approccio sì sistemico alle cose ma anche ben saldo rispetto all'autodeterminazione e la fluidità.
incredibile immagine stock trovata con il tag "queer"
Provo a fare un altro esempio pescando da un altro ambito della giustizia sociale: la fat liberation.
Ora, una cosa su cui insistono le persone grasse è il fatto che siano loro a dover dominare gli spazi body positive e di fat lib, perché sono quelle più impattate dalla grassofobia e quelle che hanno ovviamente più cose da insegnare sul tema. Una battaglia, spesso fraintesa, è quella per evitare che le persone magre con problemi di immagine corporea prendano sempre più spazio nel movimento, accompagnata dalla precisazione costante che body shaming (o skinny shaming in alcuni casi) non sia la stessa cosa che oppressione sistemica dei corpi grassi. Tali considerazioni vengono solitamente accolte da sdegno per la creazione di gerarchie delle oppressioni e disfattismo all'interno dei movimenti, e quindi una buona parte del discorso pubblico sul tema della fat liberation è occupato dal fare ulteriori precisazioni e distinzioni sui ruoli di potere e la partecipazione all'oppressione.
Un discorso molto simile, in termini di principio, lo fanno alcune persone nel mondo queer che si riconoscono soprattutto nelle lettere L, G e/o T. La tesi è che ci siano persone più "vicine" alla norma eterocis perché meno distruptive della stessa e dunque anche meno minacciate concretamente nella loro vita, le quali, chiedendo maggiore visibilità nella comunità, discutendo della propria oppressione specifica anche internamente agli spazi queer e creando "nuove" etichette in cui riconoscersi starebbero spingendo ai margini le persone più impattate dall'eterocisessismo. Ogni volta che le persone asessuali o bisessuali parlano di "allosessualità", "monosessualità", "visibilità", "diverse tipologie di oppressione", "passing" etc. c'è sempre qualche episodio spiacevole che segue questa dinamica, generalmente giustificato dal fatto che, appunto, questo tipo di discussioni sarebbero violente e -fobiche.
che culo
Io mi trovo sulla sponda delle persone "not actually queer", eppure, nel tentativo di trovare una sintesi che andasse bene per tutto, una regola aurea da usare in ogni dibattito, ho passato ore a fare l'avvocato del diavolo di me stessa e provare a giustificare la posizione di persone che, adesso posso dirlo senza ombra di dubbio, si comportavano in realtà in maniera a/bifobica.
Lo facevo per quanto detto sopra (quell'approccio un po' strutturalista) e perché certe volte mi sembrava che le persone coinvolte nei vari dibattiti cambiassero modus operandi e idee sulle cose in base al lato della discussione in cui si trovavano. Tipo, se erano oggetto di "call out" parlavano di aggressività/estremismo/disfattismo, se si trovavano dall'altra parte tiravano fuori concetti come "tone policing" o "gaslighting". E quindi mi chiedevo: ma allora cosa è vero e cosa no? Vale tutto?
La risposta che mi sono data è che questi concetti che ci siamo tramandatu tra un'infografica e un'altra siano strumenti di lettura della realtà che vanno però adattati ai contesti specifici, tenendo conto del fatto che sono mutabili (gli strumenti come i contesti). Che "privilegio" è un concetto fondamentale per analizzare il mondo, ma se usato in maniera acritica rischia di rallentare il cambiamento sociale e opprimere proprio chi non ne gode (vedasi riflessioni sul privilegio delle persone trans+ "AMAB", come quelle di Devon Price).
Tornando all'esempio di sopra, a me sembra che il privilegio di un corpo non grasso (impattato dalla grassofobia come tutti i corpi, eh, ma in maniera significativamente diversa) non sia paragonabile a quello di una persona queer invisibilizzata (es. bi+, ace, aro, nb) rispetto a chi, sempre nella comunità, non gode di passing. Non perché non vi siano differenze di trattamento tra le diverse persone e le diverse lettere, quelle esistono e vanno tenute in considerazione, ma perché si tratta di due situazioni diverse.
L'identità di una persona grassa è definita dallo sguardo del mondo su di essa, non dal suo. "Grassu" è un aggettivo che deriva da un preciso ordine dei corpi che è esterno alla valutazione del corpo stesso su di sé. Certo la "grassezza" non è oggettiva nella misura in cui il concetto di grasso e magro varia e ha più o meno rilevanza nel tempo in base a fattori di vario tipo (tutti socialmente definiti, comunque), ma non è neanche soggettiva, nel senso che non puoi "sentirti" o "vederti" grassu. Lo sei o meno in base ad alcuni dati "oggettivi" relativi alle tue dimensioni - che, certo, variano come termini di paragone in base al contesto sociale, ma che sono visibili e misurabili. Da ciò deriva, quindi, che qualcun altru decide per te se appartieni alla categoria delle persone grasse, senza che tu abbia alcuna voce in capitolo rispetto al posizionamento sociale che ciò comporta. Non c'è passing, non c'è discussione: sei grassu se sei grassu.
L'identità queer è un altro tipo di faccenda.
Interpretazioni strumentali del femminismo intersezionale vorrebbero farci credere che ogni situazione di oppressione sia uguale, nel bene e nel male, e che le discriminazioni si accumulino tipo punti dell'Esselunga: più ne hai più hai diritto di parola. Intersezionalità, invece, si riferisce al fatto che le rette di oppressione si intersecano creando status differenti dalla semplice somma delle parti. Insomma, proprio il contrario.
Ora, tenendo questa cosa a mente, mi sento di dire che l'identità queer sia identità anche e soprattutto nel senso più personale del termine: non è solo un dato reso "oggettivo" dall'osservazione e definizione esterna - cosa che in parte è vera, eh -, ma qualcosa che si costruisce e negozia sia rispetto ad altri membri della comunità sia rispetto a se stessu. Le gerarchie basate sulla "quantità e qualità" dell'oppressione diventano oppressive a loro volta perché negano che esista una componente - importantissima - di autodeterminazione e definizione personale nell'identità queer, creando quindi ulteriori forme di normatività di cui beneficia, ancora una volta, l'eterocispatriarcato.
A differenza della divisione, in ambito fat liberation, tra persone effettivamente grasse e persone che chiaramente non lo sono (con un certo margine di tolleranza per i vari contesti sociali, i quali peraltro non fanno che confermare quanto sia importante che le persone più in là nello spettro della grassezza vengano maggiormente rappresentate), la distinzione tra "actual queer" e "fake queer" e quindi il far corrispondere alcune identità queer non codificate secondo precise regole (spesso a loro volta figlie ANCHE di una reazione all'eteronorma) a "degli etero/viciny agli etero(?) che non possono capire" non risponde a una necessità di ridefinizione della norma sociale ma di conservazione della stessa e detenzione del potere.
Inoltre, mi soffermerei un attimo su almeno due punti.
Uno: perché per le persone queer si parla di "comunità" ma non per forza per altri ambiti di discriminazione (es. persone disabili, razzializzate)? Sono certa che vi siano tantissime risposte a questa domanda in altrettanti testi sulla storia della queerness, ma in questo caso vorrei parlare più che altro della dinamiche che mi sembra inneschi l'uso di tale parola in certi contesti social. Alle volte sembra che questo termine, infatti, venga usato come sinonimo di "club", e che quindi essere consideratu "abbastanza" queer costituisca una sorta di certificato di ammissione a uno spazio definito. Ma esiste davvero questo spazio? E se esiste, cosa lo rende tale? Una cultura condivisa? E quando questa cultura condivisa diventa normatività e gatekeeping?
Due: ho fatto pausa pranzo mentre scrivevo e mi sono imbattuta in questo post di senthvran che penso dovreste leggere anche voi e che affronta un tema collegato. "Queer" è un costrutto sociale anch'esso plasmato secondo forze suprematiste bianche, classiste, abiliste etc. e se è certamente vero che esiste una controcultura queer in opposizione al sistema eterocisnormativo con i suoi codici e linguaggi mi sembra che non giovi molto sacralizzarla e/o delimitarla, anzi, sarebbe più rivoluzionario espanderla. Ma non per diluirla o renderla ammaestrabile, attenzione. Il punto è rifiutare il meccanismo "club", che si fossilizza sullo status quo, la ricerca del privilegio - spesso illusorio e circoscritto - più che il diritto, in modo da formare alleanze in ottica di liberazione. Parlare, quindi, di più controculture, più configurazioni identitarie libere, collettive o individuali, più comunità che interagiscono tra loro senza la pretesa di organizzarsi in senso gerarchico.
Ci tengo a ripetere che tutto questo non nega in alcun modo il fatto che alcune persone queer siano più "scomode" di altre, o piuttosto lo siano in un modo che le mette più in pericolo di aggressioni fisiche e in difficoltà di fronte all'accesso ad alcuni servizi. Rifiuto il framework della gerarchia, ma ciò non significa che vadano sminuite le difficoltà di persone queer che vivono un'esperienza diversa dalla mia. Ed è per questo che non mi interessa neanche dire, ad esempio, che la salute mentale è importante quanto o più di quella fisica, o che anche le persone asessuali sono vittime di discriminazione: non serve legittimarci seguendo lo stesso filo di pensiero, non dobbiamo giustificazioni a nessunu.
ho scritto "end" su Pixabay e questo è uno dei risultati
Avrei altre mille cose da aggiungere ma sto scrivendo da ore e questa mail è fin troppo lunga così. La concludo in maniera anticlimatica.
Se avete osservazioni su quanto ho scritto, come sempre potete rispondermi.
Ciau