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July 27, 2024

Chi non muore si rivede

Ciao! Avevo bisogno di scrivere queste parole e non sapevo dove condividerle, così ho riesumato questo newsletter. Se ancora la ricevete e avete voglia di leggerla: brace yourselves perché è una lunga saga mentale sull'amore romantico :)



Non sono stata una bambina felice: tra i problemi economici, le urla di mio padre, il bullismo, la solitudine e quella cosa che forse era depressione forse boh non lo sapremo mai, devo dire che non ho un’infanzia gioiosa a cui guardare con nostalgia. L’affacciarsi della pubertà, più sul piano delle aspettative sociali che dell’effettivo tumulto ormonale di cui non penso di aver fatto granché esperienza, è stata per me un sollievo notevole, dato che mi ha traghettata verso una condizione esistenziale tutta nuova: quella della debuttante nel mondo delle “frequentazioni”, ovvero la versione moderna e (pre)adolescenziale del mercato matrimoniale à la Bridgerton. 


Non posso dire di essermi subito ambientata, anzi ci ho messo un poco a superare la diffidenza e a tratti il disgusto che mi provocava il pensiero di trovarmi in atteggiamenti intimi con altre persone (sebbene, lo scoprirò solo molti anni dopo, non è davvero un prerequisito dell'innamoramento), e nello specifico con i maschi. Ad esempio, per un po’ ho inventato di sana pianta cotte di fatto inesistenti, convincendo tanto lə altrə quanto me stessa della bontà di queste infatuazioni per tizi random dall’aspetto più o meno gradevole. Il semplice prendermi la briga di costruire realtà alternative in cui mi piacevano ragazzi che in realtà non mi piacevano, però, era il segno di un cambiamento nella mia percezione del mondo: adesso non ero più circondata da una massa indefinita di potenziali amicə, che comunque non volevano esserlo, ma da potenziali corteggiatori e potenziali rivali, i primi maschi e le seconde femmine. 


Sì, il dubbio che in questo scenario i generi potessero anche essere invertiti mi era venuto fin da subito, principalmente a causa della diffidenza e del disgusto di cui sopra (“se non hai voglia di baciare un ragazzo, allora forse sei lesbica” mi diceva il mio cervello bi- e afobico prima che avessi gli strumenti per riconoscerlo come tale), ma ero talmente immersa in un mix letale di eteronormatività, ingenuità asessuale e generale incapacità di leggere i propri desideri che quel dubbio venne ricacciato dritto dritto negli angoli più bui della mia psiche nel giro di qualche giorno. La prima cotta reale, per un ragazzinO della mia scuola, contribuì di lì a poco a gettare la chiave di quel cassettino nascosto ancora più lontano, facendomi credere di non avere altre opzioni per almeno altri 15 anni. 


Ma non divaghiamo, ché non sono qui a parlare dei miei coming out tardivi, bensì di quelle poche cose che invece ho sempre saputo.


Tra queste c’è, appunto, la consapevolezza che entrare – e restare – nel “mercato” delle cotte è sempre stato, per me, un modo molto efficace di diluire la sofferenza, anche (e forse soprattutto) quando non ero ricambiata o le cose restavano nel regno dell’immaginazione, del flirt come modalità di connessione con l’altro e della partecipazione a un rituale che sembra darti sempre qualcosa a cui tendere, qualcosa da aspettare come si aspetta un premio. Il mio nuovo status di soggetto potenzialmente desiderabile e desiderante in senso romantico – il mio culo asessuale ovviamente non contemplava altre dimensioni se non in maniera del tutto ipotetica e lontana da ogni effettiva progettazione – mi offriva un conforto che niente prima di allora mi aveva dato. Le cotte più intense erano fonte di piacevole agitazione, e il “mercato”, con i suoi divertenti rituali di corteggiamento, le reazioni da analizzare, gli sguardi da incrociare e i momenti su cui fantasticare, mi dava una ragione per alzarmi la mattina anche quando mi sentivo incompresa, sola, sottostimolata da tutto il resto. 


Ricordo nitidamente il momento in cui pensai “ma come fanno certe persone a voler tornare bambinə? La vita non ha senso se non sei costantemente avvoltə da questa energia romantica!”. Forse le parole non erano esattamente queste, ma il significato che avevo loro attribuito sì. Mi era chiarissimo che ciò che mi faceva stare bene non era “avere un fidanzato” (che, infatti, non avevo) o “un corteggiatore”, e neanche una cotta di per sé: era, appunto, quell’energia così pervasiva che mi sembrava l’unico vero motore del mondo, l’unica cosa per cui valeva la pena tirare a campare quando le piccole gioie quotidiane che allə altrə parevano bastare lasciavano me perennemente insoddisfatta. 


Attenzione, non pensavo queste cose nello stesso modo in cui le penserebbe un uomo cishet che scrive canzoni d’amore: non davo a quell’energia lì né una forma precisa  – il grande amore della mia vita, la persona che mi avrebbe salvato, la mia wonderwall da idealizzare come funzione e svilire come essere umano – né un ruolo salvifico nel senso più stretto della parola. Non ho mai creduto che l’amore potesse “aggiustarmi”, come una Rebecca Bunch qualunque. La quotidianità della coppia, il suo coronamento nel giorno del matrimonio, il sogno di una famiglia tradizionale…non mi hanno mai attirata. Non era quello che chiedevo all’amore, non era quello che chiedevo al suo “mercato”: Io volevo sentire, volevo desiderare. 


Tutt’oggi, anche esperita “per procura” attraverso romanzi o audiovisivi, l’energia romantica sembra essere quella cosa che più di tutte mi fa sentire viva. L'ascendente che ha su di me è potentissimo, nonostante l’abbia sempre vissuta in maniera decisamente atipica rispetto alla maggioranza – ovvero amandola in quanto fine e non mezzo per qualcos’altro.


È proprio questo, però, a rendere così dolorosa la mia condizione attuale di apparente distacco da essa. 

Se fosse un mezzo per raggiungere lo stato di persona in coppia, potrei impegnarmi nel dating allo scopo di trovare il partner che tanto bramo, bypassandola o provando a stimolarla nelle circostanze giuste. 

Se fosse un mezzo per soddisfare i miei bisogni sessuali, idem.


Ma siccome per me è un fine e non un mezzo, non basta “impegnarmi” in attività pratiche per ritrovarla: è ineffabile. 



Da quando la mia ultima relazione romantica è finita mi sento totalmente prosciugata, incapace di sintetizzare di nuovo quest’energia. Ogni volta che i miei petali sembrano muoversi leggermente verso il sole, inizia a fare capolino quella sensazione di disgusto e diffidenza che provavo da bambina prima di debuttare sul mercato, una sensazione a cui si aggiunge adesso la percezione di una disconnessione traumatica. 


È come guardarsi dall’esterno in un’esperienza di autoconsapevolezza extracorporea: il mio naso è storto come quello del protagonista di Uno, Nessuno e Centomila, e quando mi immagino soggetto desiderato e desiderante mi faccio ribrezzo. Non riesco più a entrare in connessione con quella me che aveva trovato nell’attrazione romantica e i suoi riti una fonte inesauribile di stimoli. E provare, a 35 anni, a tirarli fuori da altri pozzi sembra un’impresa ben più difficile che farlo a 10. 


Questo non solo perché la vita, a 35 anni, ti regala sicuramente più limoni, ma anche perché non hai più le forze per spremerli abbastanza da provare a farne una limonata come si deve.

Tanto più che anche i limoni, ormai, sono tutti sposati, in coppia, o diretti verso la strada che li porterà ad essere sposati, in coppia, o delusi dal non essere sposati o in coppia. 


Si parla tanto di comunità e famiglia queer come alternativa, ma al di là del fatto che il mondo non è pronto, io penso spesso che nemmeno noi che lo vorremmo siamo poi davvero così prontə. La pervasività dell’energia romantica non la sento solo io, ma è talmente potente da fagocitare ogni cosa, condizionando in maniera forse irrecuperabile anche quelli che sono semplicemente suoi possibili prodotti in mezzo a innumerevoli alternative. In altre parole: quando ad unire delle persone è l’amore romantico, le cose prendono inevitabilmente una piega diversa da tutte le altre combinazioni relazionali, creando automatismi che a loro volta generano gerarchie e rituali dai quali sembra impossibile affrancarsi o riprodurre in contesti platonici. 


Sicuramente per le nuove generazioni è più facile decostruire, ma io mi sento soffocare dell'ineluttabilità dei miei stessi limiti immaginativi.


Vorrei dire che l’essere un’anarchica relazione mi ha reso più aperta all’intimità platonica, ma mentirei. Sono brava a razionalizzare, ma quando si tratta di mostrarsi vulnerabile emotivamente e fisicamente, di condividere gli spazi in maniera sicura, di sviluppare aspettative di cura e poi mettere in atto piani concreti…mi sembra che, senza la legittimazione dell'amore romantico, mancherà sempre un pezzo, un pezzo insostituibile. E, lo voglio sottolineare, non perché questo benedetto sentimento sia “mosso da meccaniche divine” cit., ma proprio perché noi umani, a un certo punto, gliele abbiamo appioppate, creando una gerarchia da cui non si può scappare.


Ci sono persone che creano partnership queerplatoniche straordinarie, ma io, per sfortuna e/o carenze immaginative, non sono ancora riuscita a trovarne nessuna che eguagli una relazione romantica più o meno tradizionale in termini di complicità e sostegno reciproci, soprattutto dal punto di vista degli automatismi.


Puoi avere l’amicə più presente e fedele del mondo, ma non esiste un campo semantico dedicato al vostro rapporto che riproduca la potenza di un semplice “loro stanno insieme”. 

“Stare insieme”, essere con, esistere con, creando quindi una nuova unità: è qualcosa che la lingua, la percezione comune, riservano alla sfera dell’amore romantico. 

Non stai insieme allə tuə amicə, o ai partner queerplatonicə, o come vuoi chiamare qualunque combinazione relazionale che non sia quella romantica. 


Ed è giusto così, eh. Lo so. Lo so che non bisogna assimilarsi per forza, ma il punto non è questo. Il punto è che c’è qualcosa che aleggia sulle nostre teste e che ci fa sentire sempre, invariabilmente, solə se non “stiamo insieme”. Che i partner siano 1 o mille, non importa. Il punto è che devono essere partner. E mi fa schifo, la mia parte elaboratrice/ razionale lo rifiuta, ma quella più sofferente, lì, nell’angolino, sente di non riuscire a sfuggire alla maledizione dell’amatonormatività interiorizzata e a quella sensazione che non sarà mai abbastanza ribelle né abbastanza assimilata da trovare pace. 


Perché io non ho mai sognato matrimoni, figlə, e appartamenti da condividere, ma ho sempre bramato l’intimità che la gente pensa possa nascere solo da queste cose e che, come una profezia che si autoavvera, finisce per essere effettivamente generata solo in questi contesti. O almeno superata l'età in cui potresti ancora essere il personaggio di un racconto fantasy sulla found family. 


 Le persone in relazione romantica che conosco mi sembrano fare parte di una casta diversa dalla mia, e non avendo in simpatia la divisione in classi figuriamoci se accetterei serenamente un sistema a caste (che poi forse è la stessa cosa). L'idea di fare la scalata sociale e rientrare nel mondo delle persone in coppia mi fa sentire a tratti come una traditrice di classe, oltre a generarmi un senso di claustrofobia anarchica, ma non nascondo che mi manca essere il plus one automatico di qualcunə, il suo ovvio punto di riferimento e appoggio, la persona in funzione della quale programmi il tuo tempo libero e quello non libero, a cui dai inevitabilmente priorità anche quando dici che non dai priorità a nessunə. 

Mi manca proprio l’automatismo of it all, la scontatezza con cui avviene. Lo odio e lo desidero, perché non riesco ad averlo in altro modo. 


Credo nell'abbondanza, nelle relazioni e negli affetti, ma alle volte questa cosa assomiglia più a un crederci religiosamente, come avere fede in qualcosa che non hai mai visto. 

E non perché non sia possibile, in fondo chi sono io per dire che Dio non esiste? Ma perché se anche i miracoli avvengono, e però non avvengono a te, alla fine che ti frega che qualcunə abbia visto la statua della Madonna piangere sangue? Che poi magari se piangesse davanti a te manco te ne accorgeresti, e forse il problema è proprio questo. 


Ci vuole una forza d’animo notevole per avere fede, e io sono troppo debole. 


Provo ad essere il cambiamento che vorrei vedere nel mondo, e una piccola parte la faccio anche, ma sono gesti meccanici dietro i quali si nasconde un cuore inaridito dalla delusione. Sono felice di stare accanto allə miə amicə, ma ho l'impressione che cercare di vederci di più, di fare progetti non normativi per il futuro, di immaginare una comune in montagna sia spesso una forzatura guidata da un ideale più che un bisogno o un desiderio reale. Perché tanto c’è l’amore romantico, da qualche parte, o al limite la famiglia biologica, e questi avranno sempre e per sempre la precedenza. 


_________


Non so se il mio orientamento affettivo sia cambiato e io possa definirmi una persona aromantica, diciamo che non guardo all'identità con occhio diagnostico e  quindi mi interessa relativamente. Però ho imparato abbastanza dalla comunità aro da sapere che, quale che sia il motivo per cui senti una disconnessione dalla sfera romantica, va bene comunque. Va bene sentirlo, e va bene vivere al di fuori del “mercato”.

Eppure è una parte di me che mi sta lasciando – temporaneamente o no, ma intanto quello che sento è molto reale – senza che io ne abbia controllo, e questo mi infastidisce. 

Mi spaventa, soprattutto. 


Perché l'energia romantica è stata spesso la sostanza stupefacente che mi permetteva di tenere a bada i brutti pensieri, e perché le relazioni che da essa si generano rimangono il cardine su cui sembra ruotare tutto, dalla società nel suo insieme alla cerchia ristretta delle tue conoscenze.


Non so cosa mi attende adesso e pensarci mi preoccupa, ma so anche di non avere grosse alternative. Il senso di solitudine e insoddisfazione in questo sistema è cronico, o almeno ho accettato che lo è per me. 


















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